Editoriale di Gori Claudio (direttore@irog.it)
Alberto Stefani ha raccolto la staffetta di Luca Zaia e si è imposto come nuovo presidente del Veneto, con una vittoria netta che si legge in cifre: intorno al 64% dei voti per il candidato del centrodestra, contro il 28,9% dello sfidante di centrosinistra Giovanni Manildo; terza sorpresa elettorale il candidato civico Riccardo Szumski con oltre il 5%.
Questo verdetto conferma la geografia politica del Paese: il Nord orientale resta territorio favorevole alla coalizione di destra che, insieme alle liste collegate, supera ampiamente la soglia necessaria per governare con margine. I numeri dei partiti dicono che la Lega resta il primo partito in Veneto, seguita da Fratelli d’Italia e dal Partito Democratico: un quadro che fotografa tanto continuità quanto piccoli spostamenti nei rapporti di forza interni alla coalizione.
Ma leggendo i risultati con occhio critico emergono tre segnali che non vanno sottovalutati.
Primo: l’affluenza è scesa sensibilmente rispetto all’ultima tornata, attestandosi intorno al 44–45%, un dato che riduce la leggittimazione sociologica del risultato e solleva domande sulla partecipazione civica.
Secondo: il successo di Stefani è robusto — ma è inferiore al trionfo assoluto di Luca Zaia nel 2020, quando l’allora presidente raccolse quasi il 77%; quella soglia rimane un punto di riferimento difficilmente replicabile e indica come il nuovo ciclo, pur di centrodestra, sia meno monolitico rispetto a cinque anni fa.
Terzo: la conferma di una Lega forte e la contemporanea forza di Fratelli d’Italia mostrano una destra ancora competitiva ma con equilibri interni che potrebbero incidere su temi e nomine regionali nei prossimi mesi.
Quali siano le ragioni dietro questo risultato?
Da una parte la continuità politica e amministrativa promessa dal centrodestra ha trovato ascolto in un elettorato che premia stabilità e radicamento territoriale. Dall’altra, la flessione della partecipazione suggerisce che la scommessa sul consenso di massa è più complessa: astensione, sfiducia o semplice stanchezza elettorale hanno inciso, e favoriscono soprattutto formazioni ben radicate e organizzate sul territorio.
Cosa cambia rispetto al 2020?
Il confronto con le elezioni di cinque anni fa mostra una mutazione quantitativa e qualitativa: allora Zaia ottenne un risultato eccezionale, quasi plebiscitario; oggi Stefani vince con ampiezza ma senza l’unanimità di cinque anni fa. Questo mutamento non significa rottura dell’egemonia di centrodestra, ma indica una politica veneta che torna a misurarsi su rapporti di forza più bilanciati e su dinamiche locali più decisive.
I possibili scenari politici e amministrativi
In termini pratici, la composizione del consiglio regionale e la forza delle singole liste determineranno le priorità di governo: politiche per la sanità territoriale, gestione del PNRR, mobilità e pianificazione ambientale saranno il banco di prova. La compresenza di Lega e FdI, entrambe con pesi importanti, rende probabile una fase di negoziazione interna per incarichi e dossier chiave.
Un voto che conferma ma non assicura
La vittoria è netta e consegna la presidenza al centrodestra, ma la fotografia post-voto non è monocroma: la partecipazione in calo, i segnali di frammentazione sociale e il confronto con il voto di Zaia 2020 invitano a guardare con prudenza ai prossimi passi. Vincerà chi saprà tradurre il consenso in progettualità tangibile per il Veneto, non solo in cifre elettorali.























