Editoriale di Gori Claudio (direttore@irog.it)
Il paradosso italiano è ormai sotto gli occhi di tutti, ma ancora poco percepito nella sua gravità: viviamo più a lungo, ma nascono sempre meno bambini. Abbiamo città affollate, ma borghi vuoti. Abbiamo potenziale, ma non una visione condivisa. L’Italia è uno dei Paesi più longevi del mondo, ma anche uno di quelli che invecchiano più rapidamente. Una bomba demografica a orologeria che, se non disinnescata ora, rischia di esplodere nei prossimi vent’anni.
Secondo gli ultimi dati ISTAT, entro il 2050 un italiano su tre avrà più di 65 anni. Nel frattempo, il tasso di natalità continua a calare: 1,2 figli per donna, ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale (2,1). Un declino silenzioso che non fa rumore nei titoli di giornale, ma che incide profondamente su sanità, welfare, scuola, lavoro, fisco.
Cosa significa davvero vivere in un Paese che si svuota? Significa scuole che chiudono nei piccoli comuni, ospedali che diventano geriatrici, giovani costretti a emigrare per trovare opportunità, e imprese che non trovano ricambio generazionale. Significa anche un futuro pensionistico sempre più incerto, con pochi lavoratori a sostenere molti pensionati.
La demografia non è un destino, ma è una bussola. E l’Italia, oggi, ha bisogno di orientarsi. Servono politiche strutturali e non bonus occasionali. Serve una visione integrata che metta insieme natalità, immigrazione regolare e inclusiva, innovazione, e sostegno reale alla famiglia.
La natalità non si incentiva solo con gli assegni familiari, ma anche con servizi accessibili, flessibilità lavorativa, asili nido pubblici, e una cultura che non consideri la maternità o la paternità come un freno alla carriera. Fare figli in Italia oggi è percepito come un atto eroico, e non dovrebbe esserlo.
Allo stesso tempo, il discorso sull’immigrazione va ripensato senza ipocrisie: senza una gestione intelligente e umana dei flussi migratori, il sistema-Paese è destinato a collassare. Non c’è ripresa senza braccia, senza menti, senza nuovi cittadini che scelgano l’Italia come casa.
Forse è arrivato il momento di porci domande più profonde: che tipo di società vogliamo essere tra vent’anni? Vogliamo un’Italia ripiegata su se stessa, sospesa tra nostalgia e paura, o un’Italia che scommette su futuro, coraggio e fiducia? Le risposte non spettano solo alla politica, ma anche al mondo delle imprese, dell’educazione, della cultura. Anche ai media.
Perché raccontare l’emergenza demografica non significa fare allarmismo, ma ricordare che il tempo delle decisioni è ora. E che il futuro non è qualcosa che ci accade: è qualcosa che possiamo ancora costruire.






















